Filigrane è un romanzo pedagogico, nel senso più esteso del termine. Nulla è affidato alla fantasia, tutto viene metabolizzato all’interno della Biblioteca, alla voce dei libri, alla presenza e assenza degli autori. Garufi compie un viaggio iniziatico nella propria interiorità, partendo dalla sua biografia: il trascorrere del tempo mette in luce passaggi centrali, movimenti dentro strettoie, aperture apparenti e chiusure improvvise. La salvezza è rappresentata dalla forza inedita che la letteratura offre a chi la ama. Ecco apparire Coleridge e il suo naufragio, Vittorio Sereni e la trentennale amicizia con Mario Luzi, il carteggio con il “suo” Montale. La forza delle parole degli “altri” forma una “filigrana”, un vedere e un non vedere. La tensione del suo modulo narrativo è particolare: tentato più volte a deviare verso il registro poetico che gli è congeniale, o quello critico che ha accompagnato la sua vita, Garufi accede persino a una sconcertante satira. Demistifica, irride e demitizza la relazione sentimentale, il ’68 e dintorni, chiarisce l’inganno della politica, si addentra nel territorio impervio della psicoanalisi, mostrando il “gioco” di quello che una volta si chiamava Potere, parla di Cattedre universitarie giocate al risiko. Sono l’arte, la letteratura, la poesia a costituire il “duro filamento” di fedeltà alla luce, la compresenza di vivi e morti dentro l’unica dimensione possibile, che è appunto quella estetica. Il libro è commovente, ma non nostalgico, si ascoltano i sospiri, i lamenti, le tacite gioie e le utopie: tutto viene detto senza reticenza o menzogna, frontalmente. Una pagina non più bianca ma sigillata e “segnata”, come la vita nel suo perenne sciabordio, come il mare che ciclicamente ritorna in questo raffinato autore.