La poesia di Frolloni ha sì l’istantanea brevità di certe polaroid (termine che risulta già antiquato visto lo sviluppo attuale dei marchingegni) ma queste parole hanno, per così dire, un tempo lungo, un loro movimento interiore. Un fiore che si apre in un infinito rallenty. O qualcosa che ha che fare con un tempo amniotico. Quel che lui stesso chiama Storia, con una maiuscola che compie un gesto di verticalità timida. Qui va in scena l’estremo segno, o singhiozzo, quasi una supplica, di quella che Montale chiamava poesia di inappartenenza. La voce poetica è di un soggetto che cerca un tu in cui ricominciare sempre, in cui confondersi e rifarsi. In questa supplica a un tu – d’amante, madre, amica – di rifarsi grembo, di farsi come un Dio origine di io (non so la differenza, dice sinceramente il poeta misurando tutto il proprio caos) ci sta una sperduta traccia della verità ultima del vivere: io sono Tu che mi fai… Traccia oscurata, violentata in questa epoca di autosufficienza e autodeterminazioni presunte, quasi derisa da una maschera d’uomo che pretende di nascere da se stesso, dai propri desideri e non dall’amore altrui. Ci sono momenti di assoluta delicatezza percettiva. E altri di radicale violenza. Un libro di sicuro talento, di deviazioni interessanti rispetto ai canoni e ai loro cascami. Porta una luce dura, preziosa, in questi diluvianti tempi di passaggio.
Davide Rondoni