Il mio primo ricordo di una serie televisiva è del 1976: le puntate domenicali di Sandokan, la tigre della Malesia. La “tigre” rappresentò subito il mio eroe, il mio punto riferimento. All’età di sei anni, con chi puoi idealizzare il tuo eroe se non con l’uomo che incarna nella quotidianità tutto ciò che un bambino immagina e sogna? Il mio babbo divenne così la mia tigre, e Sandokan divenne il mio babbo. Certo, Kabir Bedi non aveva le fattezze di mio padre ma la grinta, la determinazione e il coraggio per me erano le stesse.
Proprio queste caratteristiche, quarantadue anni dopo, hanno sorretto il “mio” Sandokan nel viaggio più difficile. Un tour improvviso, a tappe forzate, con un’unica inamovibile costante: il sentirsi quotidianamente in altalena. Un viaggio attraverso territori apparentemente noti, e che invece rappresentano sistematiche eccezioni destinate a tramutarsi in regole. Un viaggio nell’umanità e nell’imprevedibilità di persone sconosciute.
Un viaggio, lente di ingrandimento delle contraddizioni umane ed economiche del nostro tempo, dove la persona è subordinata agli equilibri di bilancio, ai parametri di budget. Trecentoventinove giorni che sconvolgono la vita e la quotidianità, che pongono interrogativi, rafforzano convinzioni e incrinano certezze.
Una inconsapevole lectio magistralis che stringe indissolubilmente il legame tra un padre e un figlio, quasi fossero davvero un Sandokan e uno Yanez qualunque.