Per secoli, anzi millenni, metà della popolazione, quella femminile, salvo pochissime eccezioni, è stata volutamente tenuta lontana dall’istruzione con varie giustificazioni e teorie legate all’unico ruolo concesso alle donne, quello di moglie e di madre; in realtà con il preciso intento misogino sul quale l’altra metà della popolazione, quella maschile di qualsiasi estrazione sociale, culturale, geografica e politica, concordava: mantenere, attraverso l’ignoranza, il controllo e il potere sulle donne. Pertanto, se l’istruzione femminile era ritenuta trasgressiva, pericolosa e inutile, era invece auspicabile una educazione impartita in una delle tante scuole dove donne insegnavano ad altre donne il catechismo, i lavori domestici e tuttalpiù la lettura dei libri di preghiera. Sino all’unità d’Italia, dunque, per scuola femminile bisogna intendere soltanto questo tipo di scuola che non va né confuso né assimilato alle scuole maschili, dove i ragazzi apprendevano a leggere, ma anche a scrivere e a far di conto. Un equivoco che, più o meno in buonafede, si è protratto nella storia dell’istruzione fino a pochi decenni fa, quando finalmente si è cominciato a fare chiarezza denunciando l’assoluta distorsione che si era venuta a creare considerando scuole di alfabetizzazione le varie scuole femminili che, invece, altro non erano che scuole di catechismo e di lavori donneschi.
Preghiera e lavoro erano anche i rigidi confini dell’educazione fornita alle tante “pericolanti”, giovani povere ed oneste ospitate dall’interno di istituti assistenziali – conservatori e orfanotrofi – dove erano accolte “in conserva dell’onore” conducendo una vita claustrale.
Lo scandalo dell’alfabeto
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Esaurito
pagine | 158 |
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